
L’influencer marketing è morto?
- Indice dei contenuti
- Bolla o non bolla
- Il problema della fiducia: la soluzione degli hashtag
- Vanity Metrics e nano influencer
- Cosa fare, quindi?
- 3 esempi di influencer marketing
Crescono gli investimenti in influencer marketing, in Italia: perché tutti vogliono seguire l’ultimo trend online?
Il 2019 è stato l’anno dell’influencer marketing, in Italia. Secondo un’analisi pubblicata da Publicis Media, quest’anno dovrebbe chiudersi con 241 milioni di euro investiti per accaparrarsi post e recensioni dai “testimonial” del web. La crescita registrata nel giro di due anni è del 131 per cento. Il giro d’affari si fermava infatti a 104 milioni due anni fa e a 180 nel 2018 (sempre secondo Publicis).
Malgrado il successo, resta da chiedersi se non stiamo vivendo una bolla destinata a sgonfiarsi nel tempo oppure se il fenomeno continuerà a crescere (e se sì, in quale direzione). Proviamo a capirlo insieme.
Bolla o non bolla
Con tutti i nuovi trend che si affermano nel mondo del digital marketing, il problema è che spesso si riducono a buzz word, delle mode cioè che sembrano più fumo negli occhi che concrete opportunità di crescita. In questo contesto, diventa essenziale capire se il boom dell’influencer marketing è destinato a sgonfiarsi con il tempo, perché troppo inflazionato rispetto ai risultati effettivamente raggiunti.
Gianluca Manca, fondatore di Intertwine, piattaforma di content creation tra le più importanti in Europa, ha per esempio notato già alcuni importanti segnali di contenimento dello strapotere degli “influenzatori”. In un’intervista sul blog di Carmine Pappagallo – co-fondatore e presidente di Insem – Manca ha per esempio dichiarato:
«Ci sono segnali da parte dei big player della comunicazione e dalla politica che vanno in questo senso. Pensiamo alla guerra ai “like” di Instagram. Oppure alle leggi che obbligano gli influencer a specificare se un post è di advertising o meno. Attività che testimoniano della volontà comune di arginare il fenomeno Influencer. Se a questo poi aggiungi la crescita dell’alfabetizzazione digitale, con utenti che saranno più preparati per distinguere cosa è reale da cosa non lo è, allora puoi capire come si stia creando un vuoto, che sarà da riempire con altro».
Il problema principale sarà quindi di fiducia (come approfondiremo): fino a quando si potrà restare sulla linea sottile che separa una plateale sponsorizzazione da un genuino apprezzamento per un prodotto, da parte di un influencer? La domanda è per ora senza risposta.
C’è poi il tema dell’influencer marketing utilizzato senza saper bene per quale obiettivo. Matteo Flora, fondatore di The Fool, agenzia che (tra le altre cose) verifica i profili degli influencer, ha dichiarato al Sole che nel settore “la bolla c’è”, soprattutto “perché alcuni influencer vengono percepiti come la manna dal cielo. Con il crollo di ritorno dell’investimento dalla tv si può pensare che il 2019 sia l’anno dell’influencer marketing. I budget continuano a spostarsi verso questo settore, vogliamo cose fatte da persone di cui ci fidiamo. È una bolla che non scoppia. Il problema è che viene usata per la qualunque”.
Il problema della fiducia: la soluzione degli hashtag
Al problema della fiducia, il settore sta rispondendo più o meno spontaneamente con la soluzione degli hashtag creati appositamente per evitare confusione nei follower tra post sponsorizzati e non.
Secondo un’analisi di Buzoole sul 2018, sono già numerose le espressioni usate dagli influencer per dichiarare apertamente quando un contenuto è sponsorizzato da un brand: #ad, #adv, #sponsorizzato, #sponsored, #inserzioneapagamento, #prodottofornitoda, #pubblicità, #advertising. La società – una piattaforma che mette in contatto le star del web con le aziende che vogliono sfruttarne la popolarità – ha anche analizzato quanto effettivamente sia cresciuto l’utilizzo di queste espressioni nel corso del 2018.
Un grafico riassume i risultati:

Fonte: Buzzoole – Osservatorio sul tracciamento delle campagne di Influencer Marketing
Nel corso dell’anno sono stati 190mila i post pubblicati in lingua italiana da 42mila account, con almeno uno degli hashtag citati. Una crescita esponenziale rispetto al 2017: +235 per cento: 200 milioni sono state le interazioni complessive con tali “etichette”.
Quello dell’uso degli hashtag per i post sponsorizzati è una sorta di pratica autoimposta dagli influencer. In Italia è il Codice del Consumo a definire dal punti di vista legale la cosiddetta pubblicità occulta o ingannevole (che è ovviamente vietata): sebbene il Codice riguardi la pubblicità in generale, non fa specifico riferimento alle comunicazioni online.
L’autoregolamentazione è nata quindi per evitare confusione (e delusione) tra i fan. Lo ha spiegato per esempio Laura Gusmeroli di Show Reel, gruppo che si occupa di digital marketing e agenzia di nuovi talenti del web:
«Il patto che viene creato tra l’influencer e la propria community, sul quale si basa anche un impegno di costruzione del contenuto, oltre che di relazione, è fondamentale per avere un rapporto di fiducia, ma serve anche per misurare l’influenza che ha il talent verso il il prodotto stesso che promuove. Più si spiega il prodotto e la collaborazione in modo chiaro e trasparente, infatti, più il ritorno sul contenuto della campagna del brand diventa pertinente».
Vanity Metrics e nano influencer
Un secondo problema strategico quando si collabora con gli influencer è la trappola dei grandi numeri. Vengono definite Vanity Metrics quelle metriche di vanità che non necessariamente corrispondono a valore reale: milioni di fan possono non significare nulla se il tasso di interazione è al minimo (o peggio se i fan sono comprati).
Discorso simile vale per gli influencer: siamo sicuri che per ogni brand sia necessario contattare star del web da decine di milioni di follower, anche se pubblicano argomenti totalmente estranei dal settore dell’azienda interessata?
Molte imprese allora preferiscono rivolgersi ai cosiddetti nano- e micro-influencer: personalità del web che arrivano a una audience minore, rispettivamente dai mille ai 5mila e dai 5mila ai 20mila follower. Vengono poi considerati influencer medi, quelli che arrivano a 100mila, mentre i big toccano svariate centinaia di migliaia di fan e superano in alcuni casi i milioni.
Qual è il vantaggio di ricorrere a questo tipo di influencer, meno popolari?
A quanto pare, secondo le analisi di Influencer Marketing Report 2019, i nano influencer avrebbero tassi di interazione decisamente superiori: 7 per cento, contro una media del 3 per cento riferita alle altre tipologie di “testimonial” online. Più del doppio. Se è vero quindi che molte più persone vedono i post di una grande celebrità, in percentuale la fetta di utenti realmente interessati risulta maggiore quando un nano-influencer pubblica qualcosa.
E – bisogna dirlo – a un costo decisamente minore. Anche se è complicato fissare dei costi a priori, secondo un’indagine di eMarketer, un post sponsorizzato da un nano influencer costa tra 10 e 20 volte di meno.
Ecco una sintesi dell’analisi (riferita a marzo 2019), in tabella:
È più probabile poi che una “piccola star” abbia un pubblico molto più verticale rispetto a una celebrità: appassionati di una nicchia molto piccola, seguiranno probabilmente chi si concentra a parlare solo di quello, piuttosto che un grande influencer che però si occupa di molte più cose. In questo caso, il brand che si rivolge al nano-influencer può meglio indirizzare i propri sforzi verso un’audience già pronta ad ascoltare il suo messaggio.
Non sottovalutiamo infine l’influenza che le persone che ci risultano più comuni hanno su di noi. Tendiamo infatti a identificarci con i nostri pari, più che con i super-divi. Stackla, in un’indagine, ha per esempio scoperto che il 79 per cento delle persone online si lasciano influenzare dai post User-Generated (quelli creati dagli utenti più comuni); mentre solo l’8 per cento ammette di aver seguito i consigli di una super-star.
Cosa fare, quindi?
L’influencer marketing non è quindi destinato a morire. Anche perché i principi della persuasione – come ogni esperto del settore si è sentito ripetere fino alla noia – come l’autorità e la riprova sociale hanno ancora il loro valore.
Di sicuro la bolla del settore è destinata a ridimensionarsi. O comunque a prendere una piega diversa, più concentrata su un’accurata selezione degli influencer a cui rivolgersi e sui risultati che si intendono conseguire, mettendo da parte i grossi numeri e le Vanity Metrics.
Qual è quindi la strategia giusta per chi voglia scegliere di affidare i propri prodotti e servizi nelle mani delle celebrity del web (piccole o grandi)?
Delineare un quadro che vada bene per tutti i brand e tutte le campagne è chiaramente impossibile. Anche perché, malgrado quanto detto finora, per alcune aziende può essere effettivamente più utile rivolgersi ai grandi nomi. Tutto dipende dagli obiettivi che si intendono conseguire.
Di certo, però, è possibile seguire alcuni passi per avvicinarsi alla soluzione del dilemma. Possiamo dividere la strategia in tre step:
- Definizione dell’obiettivo. Perché vuoi rivolgerti a un influencer? Qual è l’obiettivo finale da raggiungere? Migliorare l’awareness del tuo brand? Portare visite al sito? Trovare nuovi lead? Accrescere le iscrizioni alla tua piattaforma? Qualunque sia il tuo obiettivo, ricorda di fissare degli indicatori di prestazione (KPI, dicono quelli bravi): numeri, dati, statistiche, che alla fine ti diranno esattamente se i tuoi soldi sono stati ben spesi o no.
- Ricerca. È essenziale quindi effettuare una ricerca (o farsi aiutare in questo da agenzie specializzate) dei profili più adatti all’obiettivo atteso. Se hai una ferramenta e vuoi vendere bulloni, una fashion stylist potrebbe non essere l’influencer più adatta ai tuoi prodotti (anche se ha due milioni di follower). Valuta quindi:
– Professionalità: anche i nano influencer devono usare i social in ottica “professionale”, quindi curando ogni contenuto al dettaglio. Valuta anche se abitualmente sponsorizza qualunque cosa gli venga proposta, indipendentemente dai suoi interessi: se è così, meglio restare alla larga.
– Specializzazione: di cosa si occupa la tua azienda? Chi sono i suoi clienti abituali? Scegli un influencer che abbia interessi e audience simili ai tuoi.
– Coinvolgimento. Quanto interagiscono i follower di un determinato profilo? Non limitarti al numero di fan, ma valuta anche commenti e condivisioni.
– Valori. Profili controversi o troppo polemici potrebbero non essere in linea con i valori del tuo brand e quindi far infuriare la tua audience. Ma potrebbe essere vero anche il contrario: dipende tutto dall’immagine che vuoi trasmettere. - Misura. Dopo aver chiuso un accordo di collaborazione con uno o più influencer, ricordati sempre di misurare i risultati, in base agli obiettivi che ti eri prefissato inizialmente. Scopri quanto spendi per ottenere ciò che ti sei prefisso (per esempio: quanto costa un lead ottenuto attraverso la tua campagna di influencer marketing?) e valuta se proseguire o meno, o come aggiustare eventualmente il tiro.
3 esempi di influencer marketing
Per concludere, scopriamo tre interessanti esempi di come un influencer possa aiutare un brand a crescere, lanciare nuovi prodotti o trovare nuove nicchie.
– La Brand Awareness di PEMA
PEMA è un brand distribuito da Loacker, specializzato in pane di segale e integrale. Per far conoscere i propri prodotti, ha lanciato una campagna di influencer marketing intitolata “Pemastershow”, nominata Best Influencer Marketing Campaign 2019.
Il brand ha coinvolto Simone Finetti, volto noto di Master Chef e Master Chef All Stars, e altri sei blogger nel mondo food e fashion-lifestyle. Finetti ha realizzato sei ricette – riproposte in video condivisi sui social – utilizzando gli ingredienti PEMA. Gli utenti online potevano poi votare la loro ricetta preferita nel #artfoodcontest.
Risultato? Due milioni le persone raggiunte sui social, più di ventimila le interazioni, 100mila visualizzazioni dei video e 70mila visite al sito dedicato.
– Dunkin’ e i nano influencer
Un sapiente impiego dei nano-influencer è stato messo in atto da una campagna su Instagram di Dunkin’, celebre catena di caffetterie USA. Il brand è nato diversi anni fa, negli anni ‘50, e oggi sta tentando di ricalibrare i propri messaggi per attrarre consumatori più giovani e di proporsi più come brand di caffetterie (fino a qualche anno fa era noto soprattutto per le ciambelle: si chiamava infatti Dunkin’ Donuts, prima di un rebranding). Da qui l’idea di coinvolgere alcuni influencer di Instagram.
La campagna ha coinvolto solo nano e micro influencer (fino a un massimo di 50mila follower) per incrementare il senso di autenticità del brand, renderlo in qualche modo comune e familiare per i Millennial, affiancando alla catena valori di spontaneità e positività
Risultati (su un totale di 25 post): più di 1,1 milioni di utenti raggiunti, con un tasso di engagement superiore al 5 per cento. Anche in questo caso, i “nano” hanno performato meglio degli influencer più popolari.
– La “auto-influencer”: il caso Amorilla
Infine un caso particolare, che non riguarda le attività di un brand che “sfrutta” l’immagine di un influencer. È Camilla Mendini, alias Carotilla, designer di moda che dal 2015 ha aperto dei canali su YouTube e Instagram. Ad aprile ha ricevuto una menzione speciale alla prima edizione dei Top Italian Green Influencers, la classifica dei profili più interessanti sul tema della sostenibilità.
Nel 2017, Mendini ha infatti lanciato il progetto “Carotilla Goes Sustainable”, su Instagram: ogni giorno pubblica una propria fotografia con almeno un capo o un accessorio sostenibile.
Oggi il suo account principale su Instagram ha più di 38mila follower. Carotilla ha sfruttato però la sua popolarità non per lanciare prodotti altrui, ma per pubblicizzare il suo brand di moda ecosostenibile “Amorilla”. La sua storia è una dimostrazione del fatto che un influencer funziona quando resta fedele ai propri valori e interessi.
In definitiva, possiamo concludere che sta sicuramente morendo un certo tipo di influencer marketing: quello dominato dai grandi numeri e dalle metriche di vanità. Ciò non vuol dire che scomparirà. Anzi, potrebbe persino crescere. A patto che ci si decida bene su limiti e opportunità dello strumento e si crei una vera e propria strategia per utilizzarlo in maniera “sana”.